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Non è un Paese per figli
Non è un Paese per figli
di Barbara Leda Kenny *
Non È Un Paese Per Figli

Il rapporto Le equilibriste, la maternità in Italia 2024  a cura di Alessandra Minello racconta la situazione delle madri nel nostro paese. Anno dopo anno, la ricerca porta alla luce quanto, per le donne italiane, quella di avere un figlio o una figlia sia una scelta penalizzante in termini di occupazione. Pesano i ruoli e le aspettative di genere, e le idee su cosa significhi essere madre. Specialmente nel Mezzogiorno, dove si riscontra che più della metà delle donne con figli è inattiva – quindi, non lavora e non cerca lavoro –, con un picco del 62,3% tra le giovani di età compresa fra i 25 e i 34 anni che hanno almeno un figlio o una figlia, e dove lo stato è meno presente con infrastrutture e servizi.

Il problema delle madri (e più in generale delle donne in Italia) non è solo l’occupazione in sé, ma anche la qualità dell’occupazione. Basti pensare che le donne che non diventano madri guadagnano il 40% più di quelle che hanno figli (come sottolineano le autrici, anche a distanza di 15 anni dal parto); per non parlare degli uomini che, con o senza figli, comunque guadagnano più delle donne.

Le madri sono infatti penalizzate in termini di retribuzione e di ore lavorate, con risvolti che vanno dalla mancata indipendenza economica, alla povertà e alla fragilità nella vecchiaia. In Italia la maternità ha un costo altissimo per le donne non solo in termini economici: la carenza di collaborazione degli uomini, ancora davvero poco partecipi, di servizi pubblici, e di politiche pubbliche a sostegno delle scelte riproduttive trasforma la nascita di un figlio o di una figlia in un carico di lavoro di cura sproporzionato, nel rischio concreto di perdere il lavoro, nella rinuncia non solo alla propria progettualità individuale, ma anche al tempo per sé. Spesso, all’arrivo di un bambino o di una bambina si accompagnano, almeno nei primi anni di vita, anche isolamento e solitudine.

“Tornando al gap di partecipazione legato ai figli, è importante sottolineare che questo agisce in due direzioni opposte: se le madri lavorano meno delle non madri, ciò non avviene per gli uomini, dove, anzi, sono i padri ad essere più occupati dei non padri”, affermano le autrici del rapporto. Se avere un figlio o una figlia stravolge la vita delle donne, non si può dunque dire la stessa cosa per i padri: il loro rapporto con il lavoro tendenzialmente non cambia, anzi. La paternità ha un impatto positivo sia sull’occupazione che sulla retribuzione degli uomini. E anche il rapporto con la cura non cambia, anche se, almeno un po’ gli uomini stanno cambiando: dove si lavora di più e con migliori condizioni, sempre di più si usufruisce dei dieci giorni di congedo di paternità: in alcune province del Nord (dove il lavoro è più stabile e retribuito meglio) si registrano valori superiori all’80% mentre in alcune di quelle del Sud le percentuali di utilizzo sono inferiori al 30%.

In questo scenario è particolarmente interessante l’approfondimento sulle politiche messe in atto da altri paesi europei che hanno invertito il trend demografico, sui diversi approcci alla famiglia e ai ruoli famigliari, e su quelli che sembrano essere gli elementi che hanno funzionato.

 
 

Di qui, il capitolo – fondamentale – del rapporto su considerazioni e raccomandazioni, che ha il pregio non solo di indicare quali misure servirebbero –condivisione della cura, welfare e lavoro e servizi per la prima infanzia –, ma anche di parlare di quali caratteristiche devono avere le politiche per funzionare. Ed è proprio su questo aspetto che voglio concentrarmi: il primo ingrediente per fare in modo che le misure funzionino è dare certezza e continuità.

In Italia, con l’avvicendarsi dei governi, bonus, premi e detrazioni saltano di finanziaria in finanziaria; a volte trovano copertura e a volte no, a volte intervengono su una fascia di popolazione e a volte su un’altra, e le misure sono caratterizzate da frammentazione e discontinuità.

L’assegno universale per i figli è l’unica misura italiana che rappresenta un’inversione di tendenza, sia perché mette al centro figli e figlie e non chi se ne prende cura (di solito le mamme: bonus mamme, mamma card, mamma domani, ecc.), sia perché razionalizzava e accorpava le altre misure. Di nuovo, con il governo Meloni abbiamo assistito al ritorno dei bonus mamma (ma solo per le mosche bianche: lavoratrici a tempo indeterminato con tre figli).

Tra le raccomandazioni per le politiche troviamo “un approccio organico e olistico”; servono misure specifiche di sostegno al reddito, infrastrutture sociali come asili nido. Servono più diritti come i congedi di paternità, ma servono anche politiche non immediatamente riconducibili alle persone che vogliono essere genitori: politiche per la cura delle persone non autosufficienti, per l’invecchiamento attivo, politiche dell’abitare.

Insomma, è un po’ difficile separare la genitorialità dal ciclo di vita, e l’interrogativo più ampio non è su come facciamo ad avere più bambini e bambine, ma quale tipo di società vogliamo essere, quali le famiglie e quali i ruoli di genere.

 
 

Come ricordano le autrici, non è un’impostazione nuova o originale quella che viene proposta, ma “un approccio già codificato dalla Commissione Europea che, in una comunicazione volta a proporre una serie di strumenti per far fronte alle sfide demografiche dell’Europa, invita gli Stati membri a implementare politiche pubbliche basate su quattro pilastri – genitori, giovani, anziani e migrazione – e su tre linee guida fondamentali – uguaglianza di genere, non discriminazione ed equità intergenerazionale”.

Spostando lo sguardo dalle madri e pensando a figli e figlie, come parte integrante della società e come portatori e portatrici di diritti (per esempio il diritto ad avere servizi educativi di qualità, al benessere economico e sociale, e anche, perché no, ad avere mamme felici e papà accudenti), capiamo che è per loro che questo Paese è inospitale; così inospitale che ne accoglie sempre meno.

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