Questa domanda la sentiamo ripetere da diverse parti ma con significati molto diversi.
Spesso segnala l’assenza dei padri nel lavoro di cura dei figli: cosa fanno i padri?
Altre volte denuncia la crisi della loro funzione di guida: una società senza padri è preda di un disordine sociale e morale.
Ma diventa anche recriminazione per quella che viene vissuta come una negazione del loro ruolo e dei loro diritti, ad esempio nelle separazioni: chi cancella i padri?
La paternità è oggi al centro di conflitti e trasformazioni, per vivere questi cambiamenti e per evitare che questi conflitti vivano l’involuzione distruttiva del rancore e della frustrazione dobbiamo imparare a nominare e riconoscere i nuovi modi di essere padri.
Possiamo inseguire la nostalgia della funzione tradizionale paterna, ma questo non ci porterà a incontrare i padri in carne e ossa con i loro desideri, le loro competenze e le loro domande.
Oppure possiamo provare ad ascoltare le loro esperienze, le relazioni che costruiscono con i propri figli e le proprie figlie, con le proprie compagne, con gli altri uomini e, non ultimo, con sé stessi. Mettersi in una relazione di cura vuol dire affrontare l’intimità, sviluppare l’empatia, fare un’esperienza del proprio corpo differente dal modello della performance e della potenza, vuol dire rimettere in discussione la percezione del proprio tempo e della distinzione tra pubblico e privato. Stare un’ora “senza far niente, senza produrre nulla, senza alcun impatto nel mondo” semplicemente in ascolto di un’altra vita.
Il cambiamento è già avvenuto ma il nostro linguaggio, le nostre norme faticano a riconoscerlo e a dargli spazio. E così vecchio e nuovo si confondono, possibilità di innovazione vengono risucchiate da riferimenti tradizionali oppure rimangono relegate in un privato che non trova rappresentazioni sociali da riconoscere e in cui riconoscersi. Come ci dicono i dati, le nuove generazioni di padri passano molto più tempo nella cura di figli e figlie, investono nella relazione con loro. Il lockdown dovuto alla pandemia ha prodotto uno spazio inedito di condivisione di tempo e spazio in cui molti padri hanno vissuto con i propri figli. Eppure, ancora oggi, se un uomo si dedica a questa relazione viene definito un po’ irrisoriamente “mammo” e mentre fioriscono tutorial forum e chat tra mamme difficilmente gli uomini producono strumenti e spazi di condivisione della loro esperienza
Prendiamo il caso delle associazioni di padri separati: è certamente la forma di organizzazione socialmente più visibile, spesso al centro di iniziative legislative. Molto spesso strumentalizzano la reale sofferenza di molti uomini per alimentare posizioni misogine e revansciste. Ma, a pensarci bene, rappresentano già esse stesse il segno di un cambiamento ormai irreversibile: padri che mettono “in piazza” la propria vulnerabilità, la propria sofferenza, il proprio desiderio di vicinanza e intimità con figli e figlie. Magari gli stessi uomini che prima della separazione vivevano la cura paterna come impegno nel lavoro per “non far mancare nulla alla famiglia”. Ma, in caso di separazione, l’idea che considera le madri più adatte a restare accanto ai figli, non è figlia proprio della rappresentazione stereotipata che attribuisce alle donne l’accudimento e agli uomini la realizzazione professionale e la proiezione sociale? E questa attribuzione di ruoli e destini non discrimina e penalizza le donne nei colloqui di lavoro o le colpevolizza se non si dedicano abbastanza ai figli?
Questo paradosso solo apparente mostra come, in un mondo che è cambiato, in cui le famiglie non sono più immodificabili e il lavoro non è più esclusiva maschile e nemmeno condizione stabile di costruzione della propria identità su cui fondare genealogie maschili, il riferimento al potere, all’autorità si rivelino per gli omini un vicolo cieco. Il padre autorità sconta la propria esclusione dall’intimità, il padre che si verifica nella performance sociale si scontra con il tramonto del modello di cittadino padrone di sé.
Abbiamo bisogno, allora, di produrre come uomini e di offrire agli altri uomini rappresentazioni che legittimino una nuova esperienza paterna. Per questo non bastano le norme: spesso il congedo di paternità non viene utilizzato perché anche se una norma giuridica lo permette la norma sociale lo delegittima. Così come colpevolizza la “pretesa” delle madri che “vogliono fare carriera” o continuare ad essere donne abdicando a quella dedizione totalmente oblativa che ci aspettiamo da loro.
La disapprovazione sociale, le aspettative che schiacciano donne e uomini sul materno e sul paterno e padri e madri su “funzioni” complementari e immodificabili, imprigionano le nostre vite. La gratificazione per la nostra corrispondenza a quel ruolo si rivela una gabbia: le donne hanno per prime messo in discussione la maternità come destino e come canone su cui conformare il proprio stare al mondo. Anche rinunciando alla gratificazione derivante da quel senso di indispensabilità che può diventare soffocante: “le madri sanno come si fa” … e se non ce la fai, se non riesci a reggere la pressione di quella domanda di cura totalizzante non sei una buona madre. Fare spazio all’esperienza paterna vuol dire anche liberare le donne da questa esclusività, riconoscere una diversa competenza paterna possibile, accettare che gli uomini sappiano cosa far indossare ai propri figli e ricordare cosa far mangiare loro.
Oggi possiamo andare oltre l’invito agli uomini a “condividere il lavoro di cura per permettere alle donne di impegnarsi nel lavoro” o ad “aiutare le donne nella gestione della casa o dei figli”. Possiamo pensare una diversa idea del lavoro, della cura, del corpo e delle relazioni che non frammenti, non imprigioni le nostre vite ma scopra una diversa umanità possibile di donne e uomini.