di Giorgia Serughetti*

È il ritratto a chiaroscuro di una generazione quello che emerge da questa indagine sulla violenza di genere in adolescenza: un quadro che presenta molte ombre e alcune luci.

I ragazzi e le ragazze tra i 14 e i 18 anni che hanno risposto ai questionari somministrati da Ipsos rivelano una consapevolezza e una sensibilità nuova, superiore a quella dei loro genitori e nonni, rispetto alle tematiche di genere, e in particolare alla violenza nelle sue diverse forme. Emerge, per esempio, un dato molto significativo riguardo alla percezione dell’importanza del consenso ad atti sessuali. Il 90% del campione si dichiara d’accordo con l’affermazione secondo cui anche in un rapporto di coppia stabile è importante chiedere sempre alla persona con cui si ha una relazione il consenso prima di ogni rapporto sessuale. È da qui che passa la possibilità concreta di superare la cultura dello stupro, quel modo di pensare nutrito di “miti” – tra cui il più diffuso è che “no vuol dire sì” – passibile di tradursi in comportamenti abusivi e di giustificarli. In modo simile, dalla capacità di individuare nei comportamenti di controllo, anche i più diffusi, i primi segni di un agito violento passa la possibilità di prevenirne e contrastarne lo sviluppo.

Tuttavia, la maggiore conoscenza dei temi e l’accresciuta consapevolezza “teorica” dei problemi non sempre porta i ragazzi e le ragazze – e i primi meno delle seconde – a riconoscere gli stereotipi che resistono nel proprio modo di pensare i rapporti tra uomini e donne, né a leggere come abusivi i propri comportamenti, le dinamiche di potere e di controllo che mettono in atto. Per esempio, il grande accordo che emerge rispetto all’importanza del consenso è in parte contraddetto dalle risposte alle domande successive, con una maggioranza di ragazzi che pensa sia comunque «difficile dire no» se il rapporto sessuale è richiesto dalla persona con cui si ha una relazione, e un’ampia minoranza che pensa sia «scontato» che ci sia accordo. Emerge quindi uno scarto tra apprendimenti diffusi e prassi condivise.

In questo quadro le tecnologie della comunicazione svolgono ruolo ambiguo. Da una parte, veicolano l’accesso a una quantità di informazioni e contenuti di sensibilizzazione sconosciuta alle generazioni precedenti. Dall’altra, tuttavia, amplificano le possibilità di esercitare controllo sulla partner, e generano nuove forme di violenza, come la condivisione di foto intime senza il consenso della persona interessata. E quanto accade in rete non è meno “reale” di quel che avviene al di fuori, come segnala la nozione di «onlife», coniato da Luciano Floridi e ripreso in questo rapporto.

Ciò che se ne deduce è, insieme alla necessità di investire nella conoscenza e nella sensibilizzazione sulla violenza, il bisogno di rafforzare le competenze digitali: non solo tecnologiche, ma relazionali e comportamentali. Inoltre, in un’epoca della virtualizzazione di larghe componenti della vita, si pone con urgenza il problema di riconnettere la mente e il corpo, la testa e il cuore, i saperi e le emozioni, aprendo per ragazze e ragazzi nuovi spazi di parola e condivisione. Servono luoghi di educazione e formazione in cui le nozioni apprese, anche attraverso la rete, siano calate nei vissuti quotidiani, rese materia viva nella costruzioni di relazioni più libere.

*Giorgia Serughetti è ricercatrice in Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di genere, femminismo, teoria politica e sociale. Fa parte del comitato direttivo del centro di ricerca ADV – Against domestic violence. Il suo ultimo libro è La società esiste (Laterza 2023).